Le microplastiche sono frammenti di materiale plastico con dimensioni inferiori a cinque millimetri. Vengono generate in parte in modo diretto, attraverso processi industriali che le impiegano come additivi o ingredienti in prodotti cosmetici, detergenti, materiali abrasivi, e in parte in modo indiretto, per effetto della frammentazione meccanica, termica o chimica di oggetti plastici più grandi, soggetti a deterioramento nel tempo.
La definizione, apparentemente semplice, nasconde una varietà ampia di forme, composizioni e comportamenti.
Alcune microplastiche sono visibili a occhio nudo, altre no. Alcune galleggiano, altre si depositano. In tutti i casi, la loro presenza è difficilmente reversibile e, una volta disperse nell’ambiente, tendono a persistere.
Da dove provengono
L’origine delle microplastiche non è riconducibile a un unico processo, ma alla somma di pratiche diffuse e consolidate. La produzione e lo smaltimento degli imballaggi, il lavaggio degli indumenti sintetici, l’abrasione degli pneumatici, l’impiego di rivestimenti plastici nei materiali da costruzione, la dispersione di rifiuti in ambienti non controllati: ogni fase della filiera – dalla produzione alla gestione del fine vita – può contribuire al rilascio di particelle di plastica di piccolissime dimensioni.
A queste si aggiunge la quota derivante dall’usura dei prodotti di uso quotidiano, spesso sottovalutata: bottiglie, contenitori, utensili monouso, giocattoli, componenti elettronici.
Anche materiali alternativi come certi tipi di carta e cartone, trattati con sostanze impermeabilizzanti, possono comportare fenomeni di rilascio, in particolare a contatto con cibi caldi, grassi o acidi.
La dispersione nell’ambiente
Una volta generate, le microplastiche si diffondono. Entrano nei corsi d’acqua attraverso il lavaggio dei tessuti e lo scarico delle acque reflue, si accumulano nei sedimenti, vengono trasportate dal vento e dalla pioggia, possono rimanere in sospensione nell’aria o depositarsi su superfici esposte.
Sono state rilevate nei mari, nei laghi, nei suoli agricoli, nelle aree urbane e in regioni remote prive di attività umane significative.
Il loro comportamento ambientale dipende da fattori fisico-chimici (densità, forma, composizione polimerica) ma anche da condizioni esterne come temperatura, salinità, presenza di sostanze organiche o inquinanti.
Alcune particelle restano in circolazione per anni, altre si frammentano ulteriormente generando forme ancora più piccole, note come nanoplastiche, il cui impatto è ancor meno compreso.
Il passaggio negli organismi viventi
La possibilità che le microplastiche entrino in contatto con il corpo umano non è più solo un’ipotesi teorica. Sono stati rilevati frammenti in campioni di sangue, placenta, tessuto polmonare, e in fluidi biologici. I meccanismi di assorbimento non sono del tutto chiariti, ma le vie di esposizione comprendono l’ingestione, l’inalazione e, in misura minore, il contatto cutaneo.
Gli alimenti di origine marina rappresentano una delle principali fonti di trasferimento, in particolare per quanto riguarda molluschi e pesci di piccola taglia consumati interi.
Anche l’acqua potabile, specialmente se imbottigliata, può contenere quantità rilevabili di microplastiche. L’aria che si respira negli ambienti chiusi, arricchita da fibre sintetiche e polveri sospese, è un altro canale di esposizione da non trascurare.
I potenziali effetti sulla salute
Le conoscenze disponibili non permettono ancora di delineare un quadro univoco, ma esistono indicazioni sufficienti per ritenere che l’impatto possa essere rilevante, soprattutto in presenza di esposizioni prolungate.
Le microplastiche, una volta penetrate nei tessuti, possono provocare reazioni infiammatorie, stress ossidativo, alterazioni immunitarie e, in alcuni casi, interferenze con il sistema endocrino.
Va inoltre considerata la capacità di queste particelle di trasportare sostanze chimiche tossiche – metalli pesanti, pesticidi, composti organici persistenti – che si legano alla superficie del polimero o sono già presenti come additivi nella plastica originaria. Il rischio, in questo caso, è duplice: fisico, legato alla presenza del frammento, e chimico, legato ai composti associati.
Va tenuto in conto che gli studi sugli effetti negli organismi viventi sono ancora agli inizi.
L’impatto sugli ecosistemi
Le microplastiche non alterano solo gli equilibri biologici degli organismi che le ingeriscono, ma incidono anche sulla qualità del suolo, sulla funzionalità dei sistemi acquatici e sulla struttura delle reti trofiche.
Nei mari, la presenza diffusa di queste particelle ha già determinato effetti visibili: danni meccanici agli apparati digerenti degli animali, riduzione della fertilità, accumulo di tossine, mortalità precoce.
I sedimenti fluviali e marini rappresentano un importante punto di accumulo, con potenziali conseguenze a lungo termine sulla disponibilità di nutrienti, sull’assorbimento della luce e sulla qualità delle acque.
La degradazione dei residui plastici non comporta la loro scomparsa, ma la trasformazione in forme meno individuabili e, per questo, più insidiose.
Le possibilità di riduzione
In assenza di soluzioni tecniche in grado di rimuovere le microplastiche su scala significativa, l’unico approccio efficace rimane quello preventivo.
La sostituzione dei materiali plastici in contesti in cui non è necessaria la loro presenza, l’adozione di contenitori alternativi per la conservazione di alimenti, la selezione di tessuti in fibre naturali, la preferenza per prodotti privi di additivi sintetici, la riduzione dell’uso di articoli monouso sono tutte pratiche che, pur nel loro limite, contribuiscono a contenere la dispersione.
L’attenzione al contesto è fondamentale. La plastica a contatto con cibi grassi o caldi rilascia più facilmente sostanze, così come gli indumenti sintetici lavati a temperature elevate tendono a perdere una quantità maggiore di fibre. Le condizioni contano almeno quanto i materiali.
La ricerca
La comunità scientifica sta cercando di quantificare i rischi attraverso studi su modelli animali, analisi di esposizione ambientale, simulazioni in vitro e progetti integrati come il programma europeo PLASTIRISK.
Le difficoltà metodologiche, tuttavia, restano numerose: manca una definizione standardizzata dei parametri di esposizione, i metodi di rilevamento non sono ancora uniformi, le condizioni reali di contaminazione sono difficili da riprodurre in laboratorio.
Il tema non è se le microplastiche siano presenti, ma in quale misura, con quali conseguenze e attraverso quali percorsi. È su questi interrogativi che si concentrano ora gli sforzi di ricerca più avanzati.
Fonti web:
- https://purovitalis.com/it/salute-delle-microplastiche-e-strategie-di-prevenzione/
- https://www.greenpeace.org/italy/comunicato-stampa/4989/greenpeace-la-plastica-minaccia-la-salute-umana/
- https://www.issalute.it/index.php/la-salute-dalla-a-alla-z-menu/m/microplastiche